A scuola mi sentivo inadeguata…(e mi ci sento ancora)

7–10 minuti

Non ricordo cosa ho mangiato ieri sera per cena ma nella mia memoria corporea sono ancora impresse le sensazioni che ho provato quella volta che la maestra, in prima o seconda classe della scuola primaria, ha strappato con forza il foglio su cui era l’esercizio che avevo appena finito di svolgere con cura. In realtà, il compito era perfetto e, no, non per vantarmi ma perché nella scuola dei voti, è l’insegnante stessa ad ammetterlo: avevo preso A, che per una bambina di sei anni significa solo “alla maestra è piaciuto molto”.

“Ilaria tutte A” così mi aveva soprannominata, così recitava anche la filastrocca di classe e forse è per quello che ancora oggi riesco ad accettare a fatica di commettere errori, forse è per quello che allo stesso tempo non mi sento mai abbastanza brava; le mie aspettative non fanno altro che deludermi.

Insomma, avevo terminato questo compito perfetto in poco tempo e c’era da aspettare; “Fai la cornicetta intanto”, diceva come al solito la maestra ed io obbedivo. Ma avevo finito anche di fare la cornicetta, colorata con attenzione e disegnata precisamente tra i quadrettoni del quaderno con righello e matita. Così continuavo a decorare il foglio, commettendo l’inammissibile errore di colorare e decorare anche quella A tracciata dalla maestra qualche minuto prima in stampatello con un bel rosso acceso. “Il voto è sacro!”, questa la giustificazione urlata dall’insegnante al momento dello strappo del foglio. E bada bene, era una maestra montessoriana! Lo riconosco ora che faccio la pedagogista: ricordo gli esercizi che ci faceva svolgere, uno ad uno; è anche grazie a lei che amo la grammatica, scrivere e giocare con le parole ma quel “come ti sei permessa?” mi ronza ancora nella testa forte ogni volta che cerco di spingermi oltre i limiti, ogni volta che oso oltre le mie zone di comfort, ogni volta che intraprendo un nuovo progetto e scelgo di puntare su me stessa.

Amo Montessori, le sono profondamente grata per ciò che ci ha tramandato e per la rivoluzione pedagogica che ci ha donato ma un docente competente non lo fa un metodo ed il metodo non fa dell’agire educativo una garanzia.

Da quando faccio questo lavoro ho capito che anche l’educazione dei più piccoli è sempre prima educazione degli adulti:  soprattutto in quest’epoca, in cui le teorie sono tante ed i genitori rimangono disorientati rispetto a tutte le informazioni che ricevono sul loro duro ruolo, è necessario che ognuno di noi faccia i conti con la propria infanzia, guardi in faccia il proprio copione educativo, inizi a contare le ferite infantili che porta con sé, per non riversarle sui figli, per non riversarle sugli allievi.

Lavorare in campo educativo significa soprattutto imparare a scindere tra ciò che è propriamente nostro (traumi, ferite, reazioni, risposte emotive, bisogni…) e ciò che invece appartiene unicamente all’alunno/a che abbiamo di fronte. E questo vale anche per i genitori sicuramente, ma come professionisti non è solo urgente è anche e soprattutto obbligatorio.

Occorre porsi come osservatori attivi dei processi, senza avventarsi su pregiudizievoli soluzioni o su interpretazioni derivanti da personali proiezioni.

Facile a dirsi ma come si fa?

Ecco, questo è un processo che difficilmente possiamo fare da soli. 

La supervisione pedagogica diventa uno strumento essenziale in questo senso: sono dell’idea che dovrebbe essere obbligatoria in tutti i servizi educativi ed in tutti gli istituti scolastici. 

In un sondaggio online ho chiesto di associare liberamente pensieri alla parola “scuola”. 

La quasi totalità delle risposte collega al ricordo della scuola le amicizie e, dato molto preoccupante, un senso di “ansia e inadeguatezza”, dato che è confermato anche da recenti ricerche (Per 75% studenti stress da competizione a scuola, sondaggio – Benessere Psicologico Studenti – Ansa.it). 

Gli insegnanti non sono da meno: il born out è realtà per un gran numero di docenti della scuola italiana.

Ho provato perciò a spiegarmi il motivo di questo sentire comune che è emerso ed è per questo che vi ho raccontato un pezzettino significativo della mia storia da studentessa.

Credo che uno dei motivi alla base di questo senso di inadeguatezza sia il fatto che la scuola, nella maggior parte dei casi, viaggi su un tradizionalismo spinto che non tiene conto delle moderne ricerche in ambito pedagogico, psicologico e neuroscientifico ma anzi sia il frutto di un vissuto emotivo dei e delle docenti, che, non avendolo osservato e preso in carico, riversano il proprio copione educativo su alunni ed alunne, su colleghi e colleghe, ma anche su sé stessi.

Mi spiego meglio.

Le neuroscienze evidenziano, in maniera molto chiara, ciò che Gardner aveva già intuito: ognuno ha un proprio modo unico d’apprendere (per approfondire un articolo molto interessante: rivoltella-focus-scuola-01-2020.pdf (mediabiblos.it)). Individualizzare e personalizzare, proporre una didattica che preveda diversi linguaggi, privilegiare l’apprendimento esperienziale diventano elementi essenziali per una scuola davvero inclusiva per tutti e tutte. Lavorare per interessi, in piccoli gruppi, è una modalità che Montessori aveva già avvalorato e che ora trova conferma scientifica. 

È chiaro però che se la scuola continua a porre l’accento sull’insegnamento e dunque sulla trasmissione di nozioni e concetti, tutto ciò non è neanche pensabile e diventa automatico proporre modalità classiche di lezione frontale o, anche in casi in cui si tenta di modernizzarsi un po’, l’attenzione verso l’unicità di ogni singolo alunno/a non può esser considerata.

Con la netta conseguenza che, per tentare di semplificarci il lavoro, finiamo per creare un senso di inadeguatezza generale, che forse investe anche noi insegnanti.

Inadeguatezza e solitudine.

Siamo stati educati a bacchettate sulle mani. I più giovani di noi, invece, a suon di “insufficiente” o “bravissimo”, che non ci hanno fornito alcuna indicazione su competenze acquisite, modalità d’apprendimento utilizzate, vissuto emotivo legato al compito ma ci hanno costretto a focalizzarci sul risultato, sulla prestazione, con un elevato contenuto d’ansia legato al dover riuscire per sentirsi “bravi”, per sentirsi capaci, per sentirsi apprezzati e visti.

Ci hanno insegnato che per imparare bisogna soffrire e mentre sogniamo che gli alunni si alzino in piedi sul banco al suon di “Capitano, Oh mio Capitano!”, ricordandoci come quel prof. che gli ha salvato la vita, ci comportiamo come la Signorina Rottermeier, ossessionati dal controllo, per sentirci finalmente adeguati. Perché ancora vige l’equazione insegnante severo = insegnante preparato ed efficace. Tralasciando l’ostruzionismo che si riceve se si tenta di portare metodologie innovative all’interno della scuola statale (come la storia del Maestro Monaca dimostra. Per approfondire: BIMBI SVEGLI, ADULTI MOLTO MENO: Il maestro Monaca prima premiato poi licenziato dal MIUR – Generazioni Future)

Ma è davvero così? Si impara davvero dal dolore?

Certamente! Molti studi dimostrano che il vissuto emotivo legato ad un apprendimento riemerge sensorialmente ed emotivamente come un ricordo indelebile quando ne veniamo a contatto anche in futuro. Detto molto banalmente: se nella mia vita da studentessa ho incontrato un docente di matematica che utilizzava tecniche di insegnamento mortificanti, basate sul confronto costante con l’altro, sulla competizione, sul giudizio della persona, ecc. ogni volta che verrò a contatto con un compito che richiede abilità logico-matematiche automaticamente torneranno alla mente o al corpo ricordi di quel vissuto emotivo e l’equazione matematica = mortificazione sarà difficilmente scardinabile.

Alice Miller, nel suo “La rivolta del corpo”, sottolinea i danni di un’educazione violenta, che non è fatta solo di brutalità corporali ma anche di pesanti giudizi sulla persona o di negazione di sé stessi per compiacere l’altro. 

In questi mesi si discute molto sul sistema di valutazione da utilizzare nella scuola primaria, senza però soffermarsi sul fatto che il voto è una violenza legalizzata perché ci spinge a questo: a negare noi stessi per sentirci amati, per sentirci adeguati. Uso un termine molto forte perché forti ne sono le conseguenze, ben espresse dalla stessa Miller: “sono giunta a concludere che gli individui che durante l’infanzia sono stati maltrattati possono sforzarsi di obbedire al quarto comandamento [onora il padre e la madre, ndr] soltanto facendo ricorso a una massiccia rimozione e scissione delle loro vere emozioni.” E questo è tremendamente vero anche a scuola: gli insegnanti più severi sono quelli che giustificano i maltrattamenti subiti dai propri stessi insegnanti con un “pretendeva tanto ma è grazie a questo che ho imparato”, rimuovendo completamente il vissuto emotivo del bambino che sono stati e che ancora piange ed urla dentro di loro.

“L’ho fatto per il tuo bene” miete vittime come una bomba silenziosa che logora lentamente.

Come se ne esce?

La professoressa Eleonora Orsi, sul suo profilo instagram, ha raccontato, in un post molto sincero (Eleonora Orsi • prof, podcaster e narratrice ✏️🎙️ (@nora_orsi) • Foto e video di Instagram) ed interessante, cosa succede nella mente di una giovane insegnante alle prime esperienze. “Errori e sfuriate” ed il senso di inadeguatezza che ad essi era conseguente diventano un siparietto simpatico per rivelare una necessità incombente: la presenza di uno spazio di parola e confronto, sicuro, protetto, per gli e le insegnanti, accompagnato da un/a professionista super partes, per poterli leggere con un occhio esterno, per poterli svelare, per portarli alla luce, osservali senza giudizio e da essi imparare.

Prima ancora di ogni riforma, bisognerebbe permettere alla pedagogia di entrare nelle scuole. 

La supervisione pedagogica come momento di condivisione con colleghi e colleghe, per ragionare sui processi e diventare consapevoli delle proprie risorse e potenzialità diventa essenziale affinché la scuola non sia più il luogo della competizione dilagante in cui ognuno si sente inadeguato, ma luogo protetto di crescita per tutti e tutte.

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